L’arte di vincere (Moneyball) – Recensione

L'arte di vincere (Moneyball) - Recensione

È più importante vincere su un campo da gioco o nella vita privata? E una sconfitta sulla terra rossa del “diamante” brucia più di una nell’intimo panorama degli affetti? La storia del cinema sportivo (e, nello specifico, del cinema sul baseball, sport che in America è parte integrante dell’identità nazionale alla stessa stregua dell’aquila calva e della statua della libertà) è piena di film che hanno cercato di collocarsi in quella magica intersezione tra sport e vita, agonismo e sentimenti che indubbiamente rappresenta una delle più belle e toccanti metafore della nostra esistenza.

Tra i pochissimi che ci sono riusciti, L’uomo dei sogni di Phil Alden Robinson e For love of the game di Sam Raimi hanno sempre rappresentato per me un binomio perfetto, binomio che ora può diventare una trilogia grazie a Moneyball – L’arte di vincere, film di Bennett Miller (regista del pluripremiato biopic Truman Capote – A sangue freddo) ingiustamente snobbato agli ultimi Oscar in un gesto che ne sancisce definitivamente lo status di poetico e ispirato inno ai perdenti.

Il film ricostruisce l’irripetibile stagione 2001 degli Oakland Athletics dal punto di vista del loro general manager, il malinconico sognatore Billy Beane. Ex promessa del baseball professionistico, Beane è passato da giovane di belle speranze scovato dai talent scout dei Mets e propagandato come un vero asso del diamante salvo poi sgonfiarsi e fare flop prima di aver dimostrato il suo valore, a general manager intrallazzone della squadra di Oakland, una delle meno facoltose della major league.

Frustrato e demoralizzato dopo una stagione andata male – situazione aggravata per giunta dalla partenza dei suoi tre giocatori più promettenti, prontamente rilevati da team più blasonati – Beane troverà nuova linfa e nuove sfide grazie all’incontro con Peter Brand (Jonah Hill), giovane economista fresco di laurea a Stanford che gli schiuderà i misteri della sabermetrica, semisconosciuta metodologia di analisi del baseball elaborata negli anni ’70 da un anonimo impiegato americano e interamente focalizzata sull’osservazione delle statistiche di arrivo in base dei giocatori a scapito di ogni altra valutazione tecnico-umana.

Moneyball ha tantissimi pregi e quasi nessun difetto. A ben guardare, l’unico che mi viene in mente è una scena finale (che ovviamente non svelerò) un po’ anticlimatica. Per il resto, la sceneggiatura di Aaron Sorkin e Steven Zaillian vola con stile e leggerezza sul filo del paradosso in un continuo equilibrismo semantico e simbolico che è la vera forza del film. Non solo la coppia Pitt-Hill rappresenta un armonico ossimoro sul piano estetico e umano: affascinante, tormentato e ambizioso il primo; acuto, paffutello e tenace l’altro; sono perfetti per incarnare rispettivamente il Don Chisciotte e il Sancho Panza di questa battaglia contro i mulini a vento del baseball multimilionario, tutto giocato su nomi altisonanti e stipendi a otto cifre.

Altro paradosso è il modo in cui i due riescono a vestire contemporaneamente i panni di romantici underdog e alfieri del freddo calcolo matematico (la sabermetrica altro non è che questo), cinici analisti e coraggiosi sognatori lungo tutto il corso di una pellicola che alterna astutamente e magicamente sentimenti ed emozioni di segno differente e che aderisce in modo plastico alla fiera liturgia americana del “cadere e rialzarsi, cadere di nuovo e rialzarsi ancora, senza mai mollare”. Altro splendido paradosso è infine quello di un film sul baseball (ma anche e soprattutto sulla vita) che si disinteressa volutamente del campo da gioco – tranne quando ne accarezza l’ampiezza e il colpo d’occhio con splendidi campi lunghi soffusi di lirismo e nostalgia, supportati dall’eccellente fotografia di Wally Pfister, “quello del Cavaliere Oscuro e del prossimo The Dark Knight Rises” – per inseguire Beane/Pitt nel suo girovagare pensieroso-scaramantico tra spogliatoi, corridoi e uffici e nel suo dividersi tra le ambizioni sportive e l’affetto per la figlia Casey.

Ne esce il ritratto di uno splendido perdente – non solo il Beane manager sportivo ma anche il Pitt attore che domenica scorsa al Kodak Theatre si è visto scippare un Oscar che meritava pienamente dal pretenzioso damerino Jean Dujardin – e una convincente epopea di periferia che riesce ad andare ben oltre il campo ristretto dell’aneddotica da Bar Sport per far risuonare corde emotive comuni a tutti noi. Questa, badate bene, non è l’arte di vincere: questa è l’arte di vivere.