Siamo alla resa dei conti. Showdown in Hogwarts Town. Mezzanotte e mezzo di fuoco magico. Sfida all’Avada Kedavra. Come si fa a chiudere in bellezza una saga durata ben dieci anni e artefice dei più eclatanti record nella storia del cinema? Se lo sono certamente chiesto le teste coronate della Warner Bros, colosso cinematografico abituato a dominare la scena ma che dev’essersi sentito più “piccolo” e umile dell’elfo Dobby al cospetto di Lady Rowling, tessitrice di sogni e creatrice di visioni.
Chiariamo una cosa: di fronte a un evento di tale portata simbolica è difficile mantenere anche solo la più piccola parvenza di obiettività (cosa a cui d’altronde non ho mai aspirato). Può dunque capitare che l’arduo compito di metabolizzare emozioni, elaborare giudizi, muovere critiche e dispensare elogi risulti ancora più difficile e ostico del solito. Sono poi convinto che qualunque tentativo di analisi critica non può che scontrarsi con questo maestoso muro di emozioni, sentimenti, visioni e suggestioni costruito negli anni da Harry Potter e dai suoi amici. Forse, solo loro possono dirci se l’ultimo capitolo cinematografico della storia è all’altezza delle attese oppure no.
Certamente, Harry Potter e i doni della morte: parte 2 è un film imperfetto.
E lo è per la sua stessa natura, per il modo in cui è stato concepito. Nel tentativo di trasporre adeguatamente l’ultimo volume della saga letteraria, un tomo di 701 pagine in cui si condensava il destino di Harry Potter e dei suoi amici, la Warner ha pensato di coniugare buon senso e furbizia commerciale.
Buon senso poiché ha capito che celebrare degnamente la conclusione della saga avrebbe richiesto un minutaggio imponente e un investimento senza precedenti in termini di budget e professionalità coinvolte. Furbizia poiché ha deciso di “splittare” in due parti questa sfida monumentale e “somministrarle” al pubblico in due fasi distinte, a 8 mesi di distanza l’una dall’altra. Questa scelta ha creato un disequilibrio che rende i due film piuttosto “deboli” se considerati separatamente, in sé e per sè.
Una debolezza che in realtà affligge molto più questa parte seconda rispetto alla parte prima. Se è vero che I doni della Morte – Parte 1 manca di azione, preferendo concentrarsi sulla lenta costruzione delle atmosfere, la tensione e i progressivi svelamenti, questo non è necessariamente uno svantaggio e anzi ne fa un film più “potteriano”, più magico; al contrario, I Doni della Morte – Parte 2 è tutto sbilanciato sull’azione pirotecnica e sul frenetico conto alla rovescia da cui dipende la salvezza di Hogwarts.
È chiaro che in simili circostanze, ogni errore può risultare molto più evidente e madornale. Pur vantando alcune scene molto ben fatte, e riuscendo sostanzialmente a non sfigurare nel dover portare su pellicola questo attesissimo scontro finale, il film è vittima di lacune e mancanze che in fondo non avrebbero avuto ragione di esistere se avessimo avuto davanti un unico film. Ma procediamo con ordine.
Il “colpo” alla Gringott è un inizio perfetto. Pericolo, tensione e adrenalina non potevano essere rappresentate in modo migliore. Nemmeno se avessimo assistito a una scena in stile “Point Break à la Hogwarts” con Hermione, Harry e Ron armati di fucili a pompa, i volti nascosti da maschere raffiguranti gli ex presidi della Scuola di Magia. Anche la scoperta del quartultimo Horcrux nel caveau di Bellatrix LeStrange e la fuga rocambolesca a bordo del minaccioso drago bianco contribuiscono a creare un perfetto senso di urgenza e minaccia onnipresente.
Siamo giunti al momento del tutto per tutto, ci stanno dicendo Yates e gli sceneggiatori. Voldemort, l’Hitler del mondo magico, sta completando la sua stretta mortale su Hogwarts e sui territori circostanti, ormai pattugliati giorno e notte dalle legioni di Mangiamorte in cerca del Prescelto.
Ed è qui che Harry Potter e i Doni della Morte: Parte 2 comincia a mostrare i primi segni di debolezza. Quello principale è la tanto decantata Battaglia di Hogwarts che risulta del tutto spogliata dell’originalità estetica e della brillantezza narrativa di cui i film di Harry Potter abbondano, almeno a partire dal terzo capitolo. Il problema è che vengono ricalcati senza troppa convinzione i classici stilemi del fantasy epico. Da un lato abbiamo qualche centinaio di comparse in veste nera, ovvero l’esercito dei maghi cattivi, che sembrano perlopiù scorrazzare avanti e indietro senza una meta precisa, più simili a viaggiatori che hanno smarrito la strada che a perfidi assedianti in procinto di occupare Hogwarts. Dall’altro i “supersoldati” di Voldemort, goffi giganti armati di falci e mazze chiodate che sembrano tanto delle versioni malriuscite dei Troll del Signore degli Anelli, quelli che nel Ritorno del Re spingevano i mastodontici macchinari d’assedio nell’attacco a Minas Tirith. Tutto già visto e niente di nuovo sotto il sole, insomma.
Altra pecca di Harry Potter e i Doni della Morte: Parte 2 è la mancanza si ritmo e il calo di tensione che accompagnano il disvelamento degli ultimi Horcrux, in particolare del Diadema di Cosetta Corvonero. L’oggetto in sé, e la scena che ne illustra il recupero, sono piuttosto scontate e si lasciano dietro uno sgradevole senso di messinscena puerile, un mood completamente errato, da filmetto d’avventura per ragazzi.
Come sapevamo, l’ultimo libro di Harry Potter portava con sé la tragica morte di molti dei personaggi che per anni hanno circondato il maghetto occhialuto nelle sue peripezie. Nel film, queste morti risultano ancora più choccanti e improvvise del normale poiché ci vengono presentate in modo brusco e frettoloso, spesso a cose fatte, come in un cruento war movie sulla Seconda Guerra Mondiale, senza che a precederle o a seguirle siano scene capaci di celebrare con poesia o fervore epico il valore e il coraggio della persona appena scomparsa.
Il discorso vale poi anche all’opposto. Dopo aver odiato per svariati capitoli la sadica Mangiamorte Bellatrix Le Strange, avrei voluto vederla annientata in modo più convincente, meno kitsch e meno “casuale” di come effettivamente succede.
In qualità di capitolo conclusivo di questa straordinaria saga, era lecito aspettarsi che alcuni nodi cruciali venissero al pettine e fosse in qualche modo condensata sullo schermo la saggezza, la filosofia e lo spirito che hanno animato e animano tutt’ora il mondo di Hogwarts.
Per fortuna, questo aspetto viene adeguatamente svolto innanzitutto da un grande Michael Gambon e dal suo profetico, sapiente e illuminato Albus Silente. Molto bella, simbolicamente intrigante e concettualmente stimolante la sequenza ambientata in questa sorta di “stazione eterea”, tutta bianca, dove Harry e Albus si trovano a parlare. Anche qui emergono la delicata sensibilità della Rowling e la vocazione spirituale della sua opera. Altra menzione d’onore va ad Alan Rickman e al suo Severus Piton che in questo epilogo potteriano acquisisce uno spessore, un’emotività e una nobiltà d’animo mai visti.
Standing ovation a Ralph Fiennes: il suo Voldemort è sempre stato uno degli elementi di spicco della saga, ma in questo caso l’attore britannico ha superato sé stesso. Come “cattivone” è così maledettamente magnetico e così perfidamente convincente che in alcune scene me lo sono immaginato in smoking e scarpe di vernice a presentare la Notte degli Oscar. Il duello con Harry è ben descritto e si alimenta di sequenze di grande impatto. Un buon lavoro, insomma.
Ci sono, ripeto, delle discontinuità. Harry Potter e i doni della morte: parte 2 paga il fatto di essere una “parte seconda”, di non potersi reggere sulle proprie gambe: è la metà di qualcosa, non un film pienamente e compiutamente efficace.
C’è però molta umanità, e addirittura in vari momenti mi è sembrata trapelare dallo schermo un’empatia magica e del tutto involontaria, un flusso emotivo che passa direttamente dagli attori agli spettatori. Come se loro, mentre recitano i loro ruoli, guardassero oltre lo schermo, verso di noi, seduti in sala, e ci chiedessero con lo sguardo “Sta succedendo davvero? Siamo davvero arrivati alla fine?”. Insomma si è creata un’alchimia che spesso sembra uscire dai limiti imposti dal copione. Si respira un senso di predestinazione, commozione e rivelazione. Un senso di incredibile consapevolezza. Di essere tutti quanti, noi da questa parte dello schermo e loro dall’altra, impegnati a condividere qualcosa; di stare vivendo un momento storico, di ricevere in dono una preziosa eredità. E a questo si accompagna la consapevolezza che, comunque vada, qualunque sia il giudizio su questo episodio conclusivo, la Rowling ha vinto e si è assicurata l’immortalità letteraria.
Lei stessa è riuscita a creare una miriade di Horcrux – Horcrux buoni, naturalmente – che ha disseminato in ogni angolo della cultura pop di cui ci nutriamo e in cui viviamo immersi ogni giorno. A differenza di quelli di Voldemort, questi Horcrux non verranno mai cercati né trovati, e di sicuro a nessuno salterà mai in mente di distruggerli. L’anima che vi è racchiusa dentro – quella della Rowling, di Harry e di tutti gli altri – è troppo preziosa per essere sciupata.