Ormai si sa, da Philp K. Dick non si possono sempre trarre (più o meno direttamente) film epocali, ma I guardiani del destino è comunque un piacevole racconto, stranamente privo di orpelli fantascientifici e scenografie distopiche. Siamo esteticamente lontani da Matrix e da Atto di forza, per dire, ma concettualmente il discorso non cambia così tanto. Solo che a un primo sguardo non sembra.
Diciamo che il pregio principale de i guardiani del destino è il fatto di spostare il classico fulcro da thriller, lo scontro bene/male, in direzione di quello libero arbitrio/destino prestabilito, più fresco e immediato, meno “di genere”.
E un conflitto ancora più fruibile dallo spettatore, che difficilmente potrà sentirsi estraneo alle sia pure funzionali riflessioni sul tema a cui assistiamo nel corso del film. In generale colpisce l’assenza di risvolti torbidi, di personaggi banalmente sadici o meschini (ad esempio il migliore amico del protagonista è suo assistente, ed è sempre molto paziente e comprensivo, del tutto estraneo a qualsivoglia invidia).
Su questa linea insiste l’impostazione romantica del plot: Matt Damon e Emily Blunt funzionano bene ma il primo, sempre un po’ immobile, beneficia molto della grinta della seconda. Lo spettacolo si regge in buona parte sulle loro spalle, e loro svolgono il compito con diligenza e impegno.
Altra trovata simpatica e caratterizzante è l’assenza di veri e propri “cattivi”. Invece che insistere su facce torve e minacciose, magari a rischio caricatura, ad opporsi ai nostri eroi troviamo personaggi più sottili e ironici, ma non per questo inconsistenti, che con la loro presenza permettono lo scorrere della trama, molto simile a una porta girevole impazzita, di cui però gli sviluppi si seguono facilmente.
Senza fare paragoni sul piano qualitativo, un altro punto a favore de i guardiani del destino sta proprio in questo aroma degno dell’Hitchcock più spionistico, quello di l’uomo che sapeva troppo (titolo che sarebbe stato a pennello anche in questo caso) o intrigo internazionale, che ogni tanto aleggia nell’aria.
Oltre al fatto che, in un gioco vagamente a scatole cinesi, il conflitto tra Norris/Damon e i “controllori” viene riprodotto e duplicato in contemporanea tra lo stesso protagonista, aspirante senatore degli Stati Uniti che deve vivere e pensare secondo regole imposte dall’alto per guadagnarsi il voto degli elettori, e la figura di Emily Blunt, che incarna invece l’irrazionalità e il rischio, anche fine a sè stesso, lo stare sopra le righe al servizio, quando non in completa balìa, dei sentimenti più sinceri e nobili.
Certo che, con queste buone intuizioni, si sarebbe potuto fare anche di più. In particolare, non si scende mai troppo in profondità, i guardiani del destino è visivamente dinamico ma non troppo incisivo, non troppo intenso, se non a sprazzi.
Matt damon poi, per me, si conferma come attore poco espressivo, per cui non è proprio il massimo quando deve trainare da solo un intero film così sentimentale. L’impegno ce lo mette, ma oltre un certo limite non riesce ad andare. Per fortuna c’è Emily Blunt, che salva la situazione e si conferma ancora una volta un’attrice molto capace e carismatica.
Così, non bisogna aspettarsi chissà cosa se non un paio d’ore di intrattenimento fine e piacevole, senza per questo minimizzare il messaggio del racconto, che per quanto risaputo rimane un concetto sempre degno di attenzione e riflessione.